Passeggiamo - Passeggiamo con Wanda Sykes

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Wanda Sykes: Oh, adoro fare passeggiate. Non solo perché si fa del sano movimento, ma anche perché così posso chiacchierare con gli amici. Adoro passeggiare con mia moglie. Mi piace la compagnia, ecco cosa mi piace davvero. Quindi sono contenta di parlare con voi e immagino che anche a voi piaccia la compagnia, perché è per questo che mi state ascoltando parlare a ruota libera.

[INTRO MUSICA]

Sam Sanchez: Benvenuti a Time To Walk, dove alcune delle persone più interessanti e stimolanti del mondo condividono storie, foto e canzoni che hanno influenzato le loro vite. Wanda Sykes ha lasciato un lavoro stabile per fare la comica. Ora è una sceneggiatrice, attrice e comica che vanta un Emmy Award. Durante questa passeggiata, Wanda ci parlerà di ciò che ha imparato dopo un’esibizione deludente e di come è arrivata la sua grande occasione tentando la sorte.

Wanda Sykes: Stiamo camminando in una riserva naturale. Si trova a 25, 30 minuti da Philadelphia. C’è la neve a terra, ma per fortuna oggi è soleggiato, perché, beh, ha fatto molto freddo da queste parti. È arrivata un’ondata di calore. È bellissimo stare all’aperto.

[RUMORE DI PASSI]

Molte persone non lo sanno, ma prima di fare la comica, lavoravo alla National Security Agency. Già, la NSA, con le autorizzazioni di sicurezza di massimo livello e tutto il resto. Vivevo nell’area metropolitana di Washington. Quando vivi da quelle parti, finisci per lavorare per il governo… da una parte o dall’altra. Quindi lavoravo lì, e mi piaceva. Amavo le persone. Amavo la missione.

Sapevo solo che c’era qualcos’altro che avrei dovuto fare nella vita.

Quindi ci ho pensato. Mi sono chiesta: “Cos’è che dovresti fare? Perché sei sulla Terra? Qual è il tuo dono?”.

Ho sempre amato il cabaret, ma non mi ci sono mai dedicata quando andavo al college perché, per prima cosa, pensavo che i miei genitori non me l’avrebbero pagato. Seconda cosa, non conoscevo nessuno personalmente che avesse intrapreso quella strada.

Stavo ascoltando la radio mentre andavo al lavoro e la stazione radio stava trasmettendo un talent show. Una delle categoria era il cabaret.

Arrivata al lavoro, mi sono ovviamente occupata dei vari casi, poi ho scritto alcune battute.

Sono andata al locale e il manager, se non ricordo male, mi chiese: “Bene, cos’hai portato?”. Avevo scritto quattro o cinque battute e lui rispose: “Ottimo, sei dei nostri. A domenica”.

Arriva la domenica e io sono emozionatissima e, intendiamoci, non ero mai stata in un locale di cabaret, mai, non ero neanche mai salita su un palco come quello per fare standup comedy. Era tutto nuovo. Quindi inizia lo spettacolo e ci sono cantanti e ballerini, poi arriva il momento del cabaret. C’erano altri due comici. Uno lo conoscete, Tony Woods, è una leggenda di Washington. Anche lui aveva appena iniziato.

Salgo sul palco e fin da subito, un’esplosione di risate. Vorrei solo ricordare alcune delle battute che ho fatto. Insomma, è stato un successo. Non me ne rendevo neanche conto. Pensavo solo che quello fosse il modo… Da quel che vedevo in TV, funzionava così. Fai una battuta e la gente ride. Ne fai un’altra e la gente ride. Non avevo idea di quanto fosse unico e raro. Era una sensazione fantastica.

Scendo dal palco e il presentatore, Andy Evans, anche lui una leggenda di Washington, mi dice: “Dove sei stata? Da dove vieni?”. Io rispondo: “Beh, lavoro alla NSA”. Lui continua: “Ok, non ti ho mai vista nei locali di cabaret né altrove” e io rispondo: “Per forza, non so dove si trovano”.

Quindi penso: “Bene. Ho sicuramente vinto la sfida. Aspettiamo solo che annuncino il vincitore.” Poi arriva il turno di Tony Woods e lui fa un’ottima esibizione. La gente ride, ma è quello che bisogna fare, no? Fai una battuta e la gente ride. Eppure pensavo di essere stata la migliore. Hanno proclamato il vincitore. Naturalmente, Tony Woods. Non ero affatto arrabbiata. Mi sono solo detta: “Ok, questa volta non ho vinto. Sarà per la prossima”. In realtà, è stato bello. Mi è piaciuto stare sul palco e vedere le persone ridere solo per qualcosa che avevo detto. Pensavo: “Si fa così”.

Il giovedì, mi pare, era l’unica serata d’improvvisazione. Ci sono andata un paio di volte, poi è arrivato il mese seguente. Era arrivato di nuovo il momento della gara. Mi ripetevo: “Va bene, stavolta penso di farcela”. Ero così fiduciosa che ho invitato tutta la famiglia: mia madre, mio padre, mio fratello e due dei miei migliori amici. I miei non avevano idea di cosa stesse succedendo. Mi dicevano: “Cosa devi fare? Perché stai… Cosa intendi per faccio cabaret?”.

Vado sul palco e questa volta penso: “Sai una cosa? Farò… Porterò del materiale nuovo perché queste persone hanno già visto la mia esibizione. Quindi meglio fare qualcosa di nuovo”. Ancora una volta, non avevo idea ed ero ignara di come funzionasse il cabaret.

Quindi salgo sul palco con del nuovo materiale. Catastrofe. È stato… un disastro. Inizialmente, il pubblico, educatamente, si limita a non ridere. Poi inizio a sentire il rumore delle sedie che si spostano… È un salone per i banchetti. Le persone sono a disagio. Ah, poi quella donna seduta di fronte a me che mi guarda come se le stessi dando sui nervi, come a dire: “Per favore, qualcuno la fermi”.

Non faccio altro che passare in rassegna le battute, così per… E va di male in peggio perché non capiscono neanche quando provo a essere divertente. Alla fine, scade il tempo, auguro la buonanotte e mi fanno quasi una standing ovation perché erano felicissimi che scendessi dal palco.

Scendo dal palco e ovviamente devo affrontare la mia famiglia. Mia madre ha potuto leggere lo sconforto dipinto sul mio volto. Mi ha semplicemente abbracciata e mi ha detto: “Senti, lascia perdere. Queste persone non significano nulla per te. A nessuno importa cosa pensato. Hai un ottimo impiego pubblico. Ora puoi tranquillamente lasciare perdere”.

D’accordo. Torno a casa e non riesco a chiudere occhio. La mattina dopo, non riesco a mangiare. Mi sentivo triste. Anche i miei amici mi dicevano che avevo uno sguardo assente. Non potevo… Era evidente. Si vedeva che c’era qualcosa che non andava. Non ero io. Ho chiamato Andy e gli ho detto: “Andy, ho un chiodo fisso. Non riesco a mangiare, a dormire. Mi sento triste”. Lui ha risposto: “Sei una comica”.

Gli rispondo: “Cosa?”.

Lui continua: “Sì, è quel che capita dopo un fiasco. Ti sentirai così finché non torni in scena e fai un bello spettacolo”.

Questo è successo, tipo, lunedì. Dovevo aspettare fino a giovedì. Ho avuto mille pensieri per la testa. Mi chiedevo: “Quanto davvero lo vuoi?”. Il fatto è che provavo… quel desiderio di sentire la stessa cosa che avevo provato la prima volta sul palco. Poi mi sono detta: “Allora, cosa succede se giovedì torni sul palco e va ancora male? Cosa fai?”. A quel punto penso: “Oddio. Non posso, non posso… Non posso vivere così. Non posso continuare a sentirmi così. Se mi dicessi semplicemente che ho chiuso e non tornassi a esibirmi? Vediamo se questa sensazione sparisce”.

Non se ne andava, continuava a tormentarmi. Così ho capito quanto ci tenevo. Ho capito quanto lo volevo. Ho anche capito quanto sarebbe stato facile dirsi: “Sai una cosa? Mia madre ha ragione. Lascia perdere. Meglio che torni alla NSA, lavorerò ancora più sodo e… starò bene”. Non potevo vivere così.

Arriva il giovedì e mi decido: “Tornerò su quel maledetto palco”. Mi reco al locale. Ovviamente sono… sono nervosa in attesa che arrivi il mio turno. La pessima esibizione di alcuni comici prima di me non mi aiuta. Alla fine tocca a me e questa volta sono abbastanza furba da fare almeno le battute che so che funzionano. Inizialmente faccio leva sui pezzi forti, la gente ride, senza strafare, ma almeno ride ed era ciò di cui avevo bisogno.

Bella esibizione, è andata bene. Tutta la tristezza che sentivo e quel… Le spalle erano rilassate. Avevo fame. Andava tutto bene. Mi sentivo a posto.

Continuavo a ripensare a quel che mi avevano detto i miei amici: “Sei divertente. Dovresti esibirti”. Penso che lo sapessi anch’io, ma non ho mai voluto rischiare. Non sapevo come farlo o forse non ero pronta. Dopo averlo fatto, però, mi sono detta: “D’accordo, questo è il mio dono. È la mia chiamata”. È questo che devo fare e sarà difficile. A volte mi sentirò in imbarazzo. Mi sentirò umiliata. Ma è questo il motivo per cui sono qui".

Tutti noi abbiamo una vocina interna, no? Ci dice cosa dovremmo fare. Ognuno sa cosa deve fare. Sa cosa vuole fare. Bisogna fare un tentativo. Ascoltate quella voce perché non si sa mai. Sapete cosa vi dico? Forse funzionerà o forse non funzionerà, ma almeno ci avrete provato e la prossima volta sarete ancora più preparati e ancora più forti.

[RUMORE DI PASSI SUL GHIACCIO]

Qui c’è una piccola lastra di ghiaccio, devo prestare attenzione perché non voglio cadere e rompermi le chi****. Non sarebbe bello. Bisogna essere brillanti.

Faccio la comica a tempo pieno, ho lasciato il Maryland e ora vivo a New York. Credo fosse il 2000, 2001. Ho scritto “The Chris Rock Show”, che ha vinto un Emmy Award. Che dire, la vita è meravigliosa. Mi scrivo al sindacato. Ottengo l’assistenza sanitaria. Oh, mio Dio.

Poi, si fa una pausa, “The Chris Rock Show” conclude la nostra stagione. Ci prendiamo una pausa, insieme al mio grande amico Lance Crouther, un altro sceneggiatore di… “The Chris Rock Show”.

Lance inizia a lavorare nel programma della HBO, “On the Record with Bob Costas”. Io sono una grande appassionata di sport. Davano una festa di fine riprese. Ero in giro con Lance e lui mi dice: “Ehi, devo scappare. Devo andare alla festa per Bob Costas”.

Io rispondo: “Portamici”.

Lui mi dice: “Wanda, per favore. È una cosa di lavoro”.

Io insisto: “Dai, farò la brava”.

Lui mi guarda imbarazzato come a dire: “Dai, Wanda, sii ragionevole”. Io lo seguo.

Mi comporto come la sorella minore: “Per favore, posso venire? Portami con te”.

Gli dico: “Senti, te lo prometto, entro e prendo da bere. Mi siedo al bancone e mangio qualcosa, poi me ne starò… bella tranquilla. Non mi sentirai proferire parola”.

Lui risponde: “Andata”. Quindi, appena varchiamo l’ingresso, prendo da bere e gli faccio vedere… Gli dico che vado verso il bancone. Ma Richard Bernstein, il produttore esecutivo, responsabile dello sport alla HBO, vede Lance e gli dice: “Ciao, Lance”, poi gli fa cenno di avvicinarsi. Non volevo essere maleducata perché stava salutando anche me. Quindi seguo Lance e mi avvicino.

Lance si gira, mi guarda e io faccio spallucce, tipo: “Dai, il tizio ti sta aspettando. Forza, vai, vai”. Così ci avviciniamo. Lance mi presenta. Io sono molto educata: “Grazie per avermi invitata”. Lance mi dice: “Beh, in realtà nessuno ti ha invitata, Wanda, ma grazie per esserti imbucata”.

Ci divertiamo. Viene portato del cibo e da bere, e ancora altro bere. Mi giro e vedo Bob Costas. Adoro Bob, sta tenendo banco. E dico sul serio. Sono tutti in piedi ad ascoltarlo. Bob continua a parlare, e parla, parla, parla. Poi Rick fa una domanda, approfittando di una piccola interruzione nel… monologo di Bob, allora Bob dice la sua e ricomincia di nuovo. A questo punto penso: “Ci siamo”. Dico solo: “Santo cielo, Bob, perché non lasci spazio anche a qualcun altro? Sai, anch’io so delle cose”.

Tutti si girano e mi guardano. Lance ha un’espressione del tipo: “Oddio, posso scordarmi questo lavoro”. Allora continuo: “Ehi, Bob, sai cosa sarebbe bello? Se solo… solo per una volta, quando uno ti fa una domanda, dicessi ’non lo so’. Accidenti, sarebbe fantastico”. Poi rincaro con: “Sai sempre tutto”. Ridono tutti, io continuo a punzecchiare Bob e i presenti stanno morendo dalle risate. Rick Bernstein prende una sedia e si avvicina a me. Anche Bob sta ridendo e a quel punto parlano tutti. Tutti blaterano qualcosa, si parla di sport e io non risparmio nessuno.

Lance si sente meglio perché tutti ridono, ma continua a pensare che verrà licenziato. Poi Rick Bernstein si avvicina a Lance e Lance dice: “Ok, ora… ora mi licenzia. Sta a vedere”.

Rick ci comunica: “Sentite, voglio portarlo in TV. Mi interessa. Beh, perché non passate in ufficio da me in settimana e capiamo come inserirlo” e mi guarda, “nello sport?”. Mi prende in giro? Vado a una festa e prometto a Lance che farò la brava. In realtà, ho pensato: “Sarò me stessa”. E mi ritrovo con un appuntamento con il responsabile dell’ufficio sport della HBO.

Così io e Lance andiamo all’incontro e lui ci parla dei diversi programmi. Poi dice: “Inside the NFL”.

Io rispondo: “Adoro ‘Inside the NFL’. Lo guardiamo sempre. Fantastico. Ne so parecchio sul calcio”.

Lui continua: “Ok. Bene, ecco cosa vogliamo. Vogliamo voi, ragazzi. Vi manderemo a vedere le partite o vi faremo entrare dove vi serve. Ci andate e fate un servizio. Lo girate. Lo montato e poi ce lo portate finito”.

Non crederete ai posti dove siamo potuti entrare. Ve lo dico? Sono stata a, quanti, tre Super Bowl? Wow!

Ero… ero a New Orleans quando i Patriots l’hanno vinto per la prima volta. Mi sono divertita un mondo. Era il Media Day e tutti assillavano Bill Belichick per sapere se sarebbe stato Drew Bledsoe o Tom Brady a iniziare la partita. Abbiamo fatto un servizio in cui ero vestita come una giornalista d’altri tempi. Indossavo il cappello e l’impermeabile. Urlavo a Bill Belichick: “Coach, coach, coach, coach!”.

Lui risponde agli appelli e… mi indica.

Io gli chiedo: “So che tutti parlano di questa faccenda del quarterback. Io voglio sapere chi diavolo calcerà quella palla. Il gioco si chiama football. Voglio sapere di chi sarà il piede dietro la palla, ok?”.

Gli altri giornalisti veri mi guardavano sbalorditi pensando: “Chi è questa buffona? Chi è?”.

Abbiamo vinto tre Emmy Award per quel programma… Solo perché ho detto a Bob Costas di chiudere il becco. Adoro Bob. È un grande.

Sapete una cosa? Aver parlato in quel momento mi ha aperto un sacco di porte. Grazie alla mia parlantina, ho guadagnato un nuovo pubblico ed è successo perché ho parlato a voce alta. Mi dicevo: “Non andrò a sedermi in un angolo in silenzio”. Bisogna parlare più forte, farsi sentire. Si apre uno spiraglio e pensi: “Sai che c’è? È la mia occasione, la mia opportunità”. Coglietela.

[RUMORE DI PASSI]

Ragazzi, è bello stare fuori, semplicemente camminare e stare all’aria aperta. È stato davvero stressante. Santo cielo. Non so come sentirmi se penso a tutto questo. Ora ho anche dei figli.

Immagino che dovrei comunicarvelo e non presumere che sappiate tutto di me, ma ho sposato una donna francese bianca. Adesso abbiamo due figli, gemelli, che sono bianchi. Ho una famiglia birazziale e internazionale. Forte.

Mi sento anche un po’ a disagio a parlarne. Beh, c’è parecchia tensione razziale in giro e poi c’è la questione della polizia perché, in quanto afroamericana, se inizi a parlare dei poliziotti oppure se solo ti azzardi a dire qualcosa di positivo su di loro, allora la gente pensa che sei insensibile oppure che sei una venduta. Però condivido che si pensi che ai neri non piacciono i poliziotti o che i neri considerino tutti i poliziotti cattivi. Questo non è vero.

Le esperienze vissute… è da lì che apprendiamo. Tutti noi abbiamo esperienze diverse.

Ad esempio, ero al college. Era il lontano 1985, credo, era l'84 o l'85, a Hampton in Virginia. Ricordo che una notte stavo guidando. Avevo una Mustang.

Siamo uscite, io e due amiche. Tracy di New York, Jeanette, che era della zona di Washington D.C., ed io della Virginia, ma cresciuta nel Maryland. Siamo uscite per prendere del vino o, come lo chiamavamo, un sostegno allo studio.

Dopo aver preso il vino, ci dirigiamo verso il campus e… pioveva tantissimo. Fuori c’era il finimondo. La mia macchina si rompe, decide di spegnersi. Mi sposto sulla corsia d’emergenza e pensiamo: “Ok, lasciamo qui la macchina e proviamo a tornare al campus a piedi? Saranno all’incirca due miglia. Oppure proviamo a chiamare il soccorso stradale. Che facciamo? Quanto dista il telefono?”. Badate bene, era l'84 o l'85, i cellulari non esistevano. Siamo state lì sedute un po’, continuando a cercare di riavviare l’auto, ma nulla. Poi, all’improvviso, wow, dietro di noi. Io alzo lo sguardo e penso: “Ok”. Tracy è di New York e comincia: “Aiuto, è la polizia. Loro… Questo… Siamo in Virginia. Siamo a sud. È buio. Nessuno sa dove siamo. Ci uccideranno”.

Io le dico: “Ok, calmati adesso”. In realtà, non l’ho detto, ma dentro di me ho pensato: “Wow, è davvero passata da ‘C’è la macchina della polizia’ a ‘Ci uccideranno. Siamo donne fuori casa. Nessuno sa dove siamo. Per noi è la fine?”.

Il poliziotto è un uomo bianco su d’età. Esce dall’auto e si avvicina a noi chiedendoci quale sia il problema.

Io gli dico: “Non riesco… La mia auto è morta, agente”. Guarda in macchina. Mi dice: “Esca un attimo”. Jeanette ribatte: “Non devi uscire dalla macchina. Non devi uscire dalla macchina”. Io invece le rispondo di lasciarmi fare. Che dovevo dirle? Quindi sono uscita dalla macchina. Il poliziotto entra e dà un’occhiata e vede che non parte. Mette la macchina in folle e mi dice: “Senti, ora… ti spiego cosa fare. Io spingo l’auto e quando spingo tu fai così. Rilasci la frizione”.

Risalgo in macchina. Pioveva ancora. A dirotto. Ad ogni modo, lui si mette dietro la macchina. Spinge. L’auto si riavvia. Parto e poi mi fermo per ringraziarlo e la macchina si spegne di nuovo. Il poliziotto inizia a gridarmi contro: “Perché l’hi fatto? Non ti devi fermare. Devi andare avanti finché non arrivi al campus. Non fermarti! Devi… Ok, lo rifacciamo ancora, ma questa volta, non ti fermare. Tira dritto”.

Io dico: “D’accordo, agente”. Così spinge di nuovo e fa ripartire la macchina. Io avanzo e, essendo sulla corsia d’emergenza, prendo una pozzanghera. Guardo nello specchietto retrovisore e lo vedo ricoperto di fango, dalla testa ai piedi. Mi sentivo in colpa, ma ho fatto come mi ha detto, ho tirato dritto.

Lui era un poliziotto buono. Me lo ricordo e ne conservo memoria.

È venuta a trovarci mia suocera dalla Francia e c’era anche sua sorella. Sono andate a visitare Philadelphia. Quando sono tornate a casa, ho notato che era un po’… C’era qualcosa che non andava. Sembrava fisicamente sconvolta. Allora le ho chiesto: “Ehi, Claude, che succede? Cosa c’è?”. Mi ha raccontato che erano a Philadelphia e che sono state in una zona dove c’erano un sacco di motociclette della polizia, tante belle moto tutte schierate.

Lei e sua sorella stavano facendo delle foto e due poliziotti si sono avvicinati in maniera molto amichevole. Hanno detto loro che se volevano salire su una moto, non c’erano problemi. Loro erano lì in piedi mentre uno di loro scattava la foto e faceva domande sulla Francia. Così mi ha raccontato. Poi si è avvicinato un gruppo di bambini neri. Anche loro stavano guardando le motociclette.

Mi ha detto che i poliziotti si sono girati e hanno intimato: “Allontanatevi dalle moto! Vi arresto. Andate…” e i ragazzini sono scappati. Poi i poliziotti si sono girati verso di lei come se nulla fosse dicendo: “Facciamo questa foto”. Lei e sua sorella hanno risposto: “No, no, no, no” e poi… se ne sono… sono andate via.

Mi ha raccontato che quei bambini non stavano facendo niente. Erano solo curiosi tanto quanto lo erano lei e sua sorella, ma sono stati trattati in modo molto diverso. Questo è il problema.

Non so che dire. Penso che anche i miei figli adesso, se siamo in giro o in macchina, mi dicono: “Mamma, c’è un poliziotto. Mamma, mamma, c’è la polizia”. Io penso: “Sono piccoli… Sono bambini con la pelle bianca. Sono bambini bianchi. Perché… anche loro hanno paura?”.

Insomma, so bene da dove ha origine la paura, ma non so se hanno paura per loro stessi o per me.

Poi ci rifletto su e mi dico: “Beh, è per via di quello che hanno visto”. Hanno visto cos’è successo durante l’estate, hanno visto le proteste e la violenza della polizia verso i manifestanti. Hanno sentito parlare di… Hanno visto le vicende di neri disarmati che sono stati uccisi. Conoscono George Floyd. Questo è il loro punto di vista, è così che si sentono.

Però sanno anche che ci sono poliziotti buoni. Un nostro caro amico fa il poliziotto. È fantastico. Lo adorano. Sono solo consapevoli.

C’è stato un tempo in cui, se i miei figli mi avessero detto: “Mamma, c’è un poliziotto”, avrei risposto: “Va tutto bene, piccoli. Non stiamo facendo nulla di male. Non ci daranno fastidio”. Ma non è vero. E loro sanno che non è vero. Quindi, non ho intenzione di mentire. Non ho le risposte. Non so cosa dire loro. Non lo so. Davvero, non ne ho idea.

E sapete che vi dico? Va bene così. A volte va bene anche non sapere cosa dire. Penso che adesso sia giunto il momento di agire. È così, non serve dire loro come navigare in queste acque. Bisogna fare qualcosa per cui non debbano più avere timore. È questo il punto, parlare con loro di ciò che si deve fare per cambiare le cose.

Qui è bellissimo. È una vasta radura e mi piace tantissimo quando la neve rimane intatta. C’è un albero e si vedono solo le mie impronte che vanno verso l’albero. Quest’albero gigante, bellissimo ha il suo spazio, è come se si mettesse in mostra. È circondato da tanti altri alberi diversi. Eppure, è come se quest’albero si distinguesse e dicesse: “Sono speciale”.

Quest’albero, secondo me, ha la lingua lunga. Vuole essere visto. Ti vedo, albero.

La musica è qualcosa di… può cambiarti la giornata. Una canzone può risollevarti dalla tristezza. A volte vuoi solo ballare e divertirti. Altre vuoi cantare l’amore perché sei innnamorato. Io ascolto diversi generi musicali e dipende tutto dallo stato d’animo in cui mi trovo o che voglio raggiungere. La musica è davvero una medicina, almeno, per me.

Sade, oh, mio Dio. La adoro. È stato allora che ho capito che dovevo lasciare la NSA. Sono andata a un concerto di Sade e il giorno dopo ho chiamato l’ufficio felice. Ho chiamato il mio capo e gli ho detto: “Senti, sto bene. Non sono malata. Sono solo troppo felice di venire al lavoro oggi. Sono frequenti le dimissioni felici?”. Lui ha risposto: “Sai una cosa? Stai a casa, perché se uno ha le palle di chiamare manifestando gioia e di parlare con onestà… Goditi la giornata”. Gli ho risposto: “Wow, grazie”. “Keep looking” è una canzone stupenda. Se vi sentite giù e volete tirarvi su, ascoltatela.

[LA MUSICA SFUMA]

Sì. “Keep Looking”.

[MUSICA - “KEEP LOOKING” DI SADE]

“Breakout”, dei Swing Out Sister, è una canzone felice. È un pezzo che ti fa ballare. Diciamo che… mi tira su di morale. A volte l’ascolto prima di uno spettacolo.

L’ascolto prima di andare a un incontro, come per dirmi: “Ce la puoi fare. Smetti di farti domande. Fallo e basta”.

[LA MUSICA SFUMA]

Mi piace molto la musica che ti tira su, che ti dà la carica. Questa sicuramente ve la darà.

[MUSICA - “BREAKOUT” DEI SWING OUT SISTER]

“September” degli Earth, Wind & Fire. Io adoro gli Earth, Wind & Fire. Qualsiasi canzone degli Earth, Wind & Fire… mi cambia la giornata. Parlano tutte di pace, amore e unione. Mi rendono felice e poi settembre è il mese in cui ho conosciuto mia moglie, Alex.

[LA MUSICA SFUMA]

Dovevo mettere “September” perché… solo per ringraziarla di avermi lasciata uscire di casa per una passeggiata. Penso che vi darà la carica giusta.

[MUSICA - “SEPTEMBER” DEGLI EARTH, WIND & FIRE]

Bene, è stato bello. Spero che vi siate divertiti tanto quanto mi sono divertita io a parlare a ruota libera.

Torno verso casa, probabilmente è il momento di aiutare i bambini a fare i compiti e di pensare a cosa mangeremo stasera. Non ne ho idea. Mi inventerò qualcosa. In ogni caso, spero che vi godiate il resto della giornata.

Grazie per esservi presi il tempo di una passeggiata insieme.