Passeggiamo - Passeggiamo con Jon M. Chu

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Jon M. Chu: Camminare mi insegna sempre qualcosa. Il rumore della ghiaia, dell’erba, delle foglie che volteggiano, il fruscio degli alberi e gli uccellini che saltellano sui cespugli o le lucertole che vi guizzano in mezzo. Tutti questi suoni mi ricordano che non siamo soli, che c’è un pianeta che vive intorno a noi e che noi siamo un tassello di tutto questo.

Camminare, in un certo senso, ristabilisce un contatto con la realtà, con il pianeta Terra.

[MUSICA INTRO]

Sam Sanchez: Questo è Time To Walk, dove alcune delle persone più interessanti e stimolanti del mondo condividono storie, foto e canzoni che hanno influenzato le loro vite. Jon M. Chu è il regista di “Crazy & Rich”, il primo film di Hollywood di rilievo dagli anni ‘90 ad avere una trama moderna e un cast principalmente asiatico. In questa camminata, Jon ci parla dei riconoscimenti inaspettati che ha ricevuto da due visionari e di come riconoscere la propria identità culturale lo abbia portato a una svolta creativa.

[RUMORE DI PASSI]

Jon M. Chu: Stiamo camminando alle pendici di questo monte, dove le colline di Los Angeles incontrano l’Oceano Pacifico. Il sole non sta ancora tramontando, ma ci è vicino. Soffia una brezza leggera. Dei falchi volano in tondo in cerca di cibo. E noi stiamo per raggiungere un punto da cui si dovrebbe vedere tutta Los Angeles.

[RUMORE DI PASSI]

Sono cresciuto sulle colline di Los Altos, in California, nella Bay Area, ero il più piccolo di cinque fratelli e la TV era sempre accesa. Andavamo sempre al cinema o a qualche spettacolo in città, qualsiasi fosse la stagione: quella dei musical, quella dell’opera e quella di danza. Il mondo dell’intrattenimento ci circondava. La persona a cui più guardavamo in tutto questo marasma di arte, la persona che probabilmente ha avuto il maggior impatto su di noi, è stata Steven Spielberg.

Ci rivedevamo molto nell’America che ritraeva in “E.T.” o “Incontri ravvicinati” o persino nei “Goonies”. Erano grandi avventure in cui l’America era il posto migliore del mondo, dove chiunque poteva avere una famiglia e lavorare duro e trovare un po’ di magia.

Ha giocato un ruolo molto importante per la mia vita, e quando ho imparato a tenere in mano una videocamera e ho realizzato che potevo parlarci attraverso ed editare ciò che facevo, ho immediatamente pensato a Spielberg. Dov’era andato a scuola? Come si diventa Steven Spielberg? Come si diventa l’Hans Christian Andersen dei nostri tempi? Così ho scoperto che era un grande sostenitore della USC Film School. E allora sono voluto andare lì. Mi sono iscritto e sono andato.

E mentre ero lì, ho fatto un paio di cortometraggi, e quello finale era… era un musical, sulla vita segreta delle madri, una roba un po’ a caso. Amavo i musical. Mi stavo laureando. E poi, ho ricevuto la chiamata che ogni laureato della USC vorrebbe ricevere. Mi hanno detto: “Ehi, Steven Spielberg ha visto il tuo corto e gli piacerebbe incontrarti”. Avevo soltanto 21 anni all’epoca, forse 22, ed erano le sei di un venerdì sera. Ero a casa di un mio amico che colleziona giocattoli. Stavamo guardando i giocattoli di “Guerre stellari” nel suo salotto, e mi arriva questa chiamata dal mio agente che fa “Sì. Il suo ufficio mi ha chiamato varie volte. Dicono che abbia visto il corto, ma non sappiamo se sia vero o cosa. Quindi non pensarci tutto il weekend”.

Sai con chi stai parlando? Certo che ci penso tutto il cavolo di weekend. Non sono riuscito a dormire quella notte, e il giorno dopo ho ricevuto un’altra chiamata dal mio agente. Mi fa “Jon, lo so che ti ho detto di non pensarci tutto il weekend, ma continuano a chiamarmi, ti vuole veramente conoscere. Quindi, riusciresti ad incontrarlo?” Gli faccio, tipo: “Dove vuole. Mi dici dove e io vado.” All’epoca avevo una vecchia Previa, una Toyota Previa, un camioncino famigliare senza sedili posteriori con macchie ovunque. Gli faccio: “Ci vado. Dimmi solo dove”.

La sera prima, domenica sera, chiamo il mio migliore amico, Jason Russell. Anche lui è andato alla scuola di cinema e forse ama Spielberg più di me. Gli dico cos’è successo. È emozionatissimo per me. Così sono andato alla Dreamworks, che è del gruppo Universal, ed ero tipo: “Ok, sono qui”.

Entro, mi registro e dico: “Sono qui per vedere Steven”, una roba un po’ assurda da dire. Voglio dire, avevo soltanto 21 anni. Stavo impazzendo. Poi ho aspettato finché non mi hanno portato in questa stanzetta di sopra. Sono rimasto lì per, boh, forse qualche minuto, e poi Steven Spielberg entra e, dal nulla, si siede a parlarmi. Parliamo di musical. Parliamo di film. Mi ha detto che uno dei suoi musical preferiti era “Oliver Twist” e ha iniziato a cantare una delle canzoni. Io avevo recitato in “Oliver Twist”. Ho interpretato l’Oliver asiatico quando ero alle superiori. Quindi conoscevo la canzone a memoria anch’io, e allora l’abbiamo praticamente cantata insieme, se… se riesci a immaginartelo. È stato un po’ imbarazzante e super fantastico allo stesso tempo.

Subito dopo gli ho detto: “Ho un’idea per un musical di cui vorrei tanto parlarle”. E lui mi fa: “Benissimo. Che ne dici di venerdì?” Gli faccio: “Perfetto”. Così sono tornato all’appartamento, e il mio amico era ancora lì, e gli faccio: “Jason, io e te torneremo a proporre il nostro musical”.

Non avevo mai presentato qualcosa a Hollywood. E così entriamo. Avevamo portato un guardaroba con tutti i costumi, l’abbiamo aperto e, mentre presentavamo, tiravamo fuori delle immagini e le mettevamo sul tavolo. Avevamo anche costumi, cappelli e parrucche e abbiamo quasi ricreato tutta l’opera stile “Moulin Rouge”, la scena in cui corrono in giro, “Da, da, da, da, da”, inscenando uno spettacolo. È stato allucinante.

Alla fine, c’erano tipo, costumi ovunque, immagini ovunque, e noi eravamo tipo: “Ta-da, beccatevi questa proposta.” E lui non avrebbe potuto essere più gentile. Ha detto: “È stato fantastico”. Non sapevamo se l’avrebbe mai comprata. Sono usciti dalla stanza.

Eravamo così felici. Abbiamo fatto foto per tutta la sala conferenze. Abbiamo posato sul tavolo.

E, qualche giorno dopo, ho ricevuto l’invito per andare a trovare Steven sul set, perché stava girando “The Terminal”.

Allora ho guidato fino… Giravano in un hangar gigante per questo film. Le porte dell’hangar si aprivano, porte giganti, e tu entravi dentro. E, beh, il set di Steven Spielberg era incredibile. Non era finto. Sembrava di stare davvero in un aeroporto. Già solo i dettagli mi mandavano fuori di testa.

Vado avanti e mi fanno: “Da questa parte”, e Steven aveva una sedia per me di fianco a lui, di fianco allo schermo. E mi fa: “Ehi, Jon, benvenuto. Siediti qui”. Di nuovo, io non ero nessuno. Ma ho potuto chiedergli cose del tipo: “Perché stai facendo questa ripresa?” E lui mi diceva: “Beh, ne ho già un’altra, quindi la sto facendo da questa angolazione”. Nessuna esitazione da parte sua, in ogni caso. E la parte migliore è stata vedere quando succedevano gli inghippi. Stavo seduto lì, quando una ripresa… Dovevano scendere dalle scale mobili, e non riuscivano a farla venire bene.

Allora li vedo andare un po’ in confusione su come usare la videocamera, eccetera… E invece di impallarsi su cosa fare e ritentare la ripresa ancora e ancora, Steven ha semplicemente fatto fermare tutto, ricominciato da capo, spezzato la ripresa in due e tutti sono tornati al lavoro. Ho potuto vedere come un leader possa comunicare in maniera sottile in tempi d’incertezza. E, alla fine della giornata, mi fa “Jon, è stato bello. Torna quando vuoi. Buona serata”.

E non dimenticherò mai come mi ha trattato. Quando incontro dei giovani registi, me lo ricordo sempre. È il potere di… del Sig. Spielberg.

Le idee su cos’è l’America, il potere della creatività, dell’espressione di sé, il potere dello storytelling con cui sono cresciuto si sono improvvisamente palesati in questo essere umano che stava di fronte a me e, in qualche modo, non era più tutto una favola. Lui l’ha reso realtà. E il fatto che sin dagli albori della mia carriera avevo un modello e sapevo che puoi diventare una persona del genere senza essere cinico o duro con gli altri per ottenere quello che vuoi o quello che ti serve, il fatto che usando la gentilezza e l’immaginazione e la creatività puoi comunque arrivare a un dominio della materia di quel livello… Sapere che qualcuno così esiste mi ha dato tutto il carburante di cui avevo bisogno per tutta la mia vita.

La sua gentilezza nei miei confronti era reale, e la nostra responsabilità di tramandarla agli altri rimarrà sempre con me.

[RUMORE DI PASSI]

Sono cresciuto negli anni ‘80 e 90 nella Silicon Valley prima che ci fosse una Silicon Valley, quando c’erano solo ingegneri e gente che voleva costruirsi un futuro migliore.

E i miei genitori sono immigrati. Sono venuti dalla Cina e dal Taiwan e hanno aperto un ristorante nel 1969. Il ristorante è aperto ancora oggi, dopo 50 anni, e lo chef Chu è ancora lì. Io sono praticamente cresciuto in quel ristorante. Tornavo da scuola, mi lasciavano al ristorante, sistemavo i tovaglioli, facevo i compiti. E le persone che entravano sapevano che: “Al figlio dello chef Chu piace girare i film”.

E quindi spesso entravano per dire a mio padre: “Ehi, abbiamo un software beta e un hardware beta. Quando abbiamo finito, possiamo darlo a te per tuo figlio, così può girare i film con questi nuovi mezzi digitali”. In questo modo, ho beneficiato di questi fantastici strumenti sin da molto piccolo e riuscivo a fare dei tagli, delle dissolvenze e degli effetti speciali prima di qualsiasi ragazzino della mia età.

E penso veramente che sia stato quello a permettermi di andare avanti e imparare molto velocemente come usare quel linguaggio. Sono stato cresciuto dalla Silicon Valley per andare a Hollywood, in un certo senso, prima che la Silicon Valley avesse qualsiasi interesse di andare a Hollywood.

E una cosa che facevo con la mia famiglia ogni anno era guardare gli Oscar insieme. È stato praticamente un sogno, andare agli Oscar.

Anni dopo, ho ricevuto un invito per gli Oscar e il pass per i VIP. I posti che mi avevano dato erano terribili. Ma dovevo andare. E non dimenticherò mai che, con la coda dell’occhio, ho visto Steve Jobs passare di fianco a me. Ora, non è che Steve Jobs mi piaccia e basta. Ho guardato ogni singolo discorso che ha fatto. Ho marinato la scuola per andare da Macworld tutti gli anni alle superiori. Quindi non sono riuscito a trattenermi e ho seguito Steve Jobs mentre entrava in una specie di bar dell’area VIP. Ero terrorizzato. Non ci volevo andare a parlare. Non credevo nemmeno che gli piacesse parlare con gli sconosciuti.

Il mio amico Harry Shum Junior mi fa: “Fidati di me. Ho lavorato a circa 20 pubblicità di iPod. Vado io a parlarci”. Allora si avvicina, mi prende il braccio e dice: “Ehi, Steve, questo è il mio amico Jon. Ti voleva conoscere”, il che è tipo la cosa peggiore da dire. Non sapevo da dove iniziare, e ho cominciato a dire: “Sa, sono… sono cresciuto a Los Altos, e la mia famiglia ha un ristorante che si chiama Chef Chu’s”.

E lui mi fa: “Oh, siamo vicini di casa, amo quel posto. Lo conosco”. E io penso: “Oddio. Grazie al cielo”. È stato davvero gentile. Gli ho detto: “Sa, le sue creazioni mi hanno davvero aiutato a diventare un regista. I suoi dispositivi mi hanno dato una voce, nel vero senso della parola”. E poi: “Ho perfino imparato a memoria la sua pubblicità, quella di “Think different””. E lui mi fa: “Oh, davvero?” Gli faccio: “Sì, è una specie di mantra per me, me lo ripeto ogni giorno”. E lui dice: “Jon, grazie di cuore”. Allunga la mano, e ce la stringiamo. Mi fa: “Per me vuol dire tanto sentirmelo dire da un vicino di casa”.

Io lo pensavo sinceramente. Poter parlare del fatto che proprio i suoi hardware e software mi avessero fatto diventare un regista ed entrare in quella sala di Hollywood nello stesso momento in cui ci entrava lui, due imprenditori faccia a faccia… Non ho potuto fare a meno di pensare che aveva riconosciuto che fossimo vicini, che avessimo le stesse radici, ed è assurdo parlare di Steve Jobs in questo modo. Ma entrambi lo riconoscevamo. Come se ci fossimo scambiati un “Ce l’hai fatta, bello”.

Non ci avevo pensato sul momento, ma credo che molte volte ci spingiamo lontano per trovare l’ispirazione, quando in realtà ciò che ci ha resi chi siamo, la comunità che ci circonda, la sorgente primaria della nostra necessità di andare là fuori a fare qualcosa è proprio di fronte a noi.

E tornare dalla propria comunità per capire quali storie hanno bisogno di essere raccontate o chi ha bisogno di aiuto è una grande responsabilità per un narratore, alla pari della storia stessa. Da persona creativa qual sono, ne trovo giovamento. Mi riporta a ciò che mi fa andare avanti, alle storie che voglio e ho bisogno di raccontare.

Quindi, se stai riflettendo sulla tua vita, sui tuoi bisogni e su ciò che potrebbe soddisfarli, ti consiglio di riscoprire la tua comunità, perché ti ha già dato tanto e ti può dare tanto anche adesso.

[RUMORE DI PASSI]

Tra l’incontro con Steven Spielberg e il mio primo film sono trascorsi cinque anni, cinque anni di promesse che avremmo fatto il mio film entro i prossimi sei mesi.

Dopo il quarto anno, pensavo di aver perso la mia occasione. E al quinto, non sapevo che altro fare. E così è successo che proprio in quel momento ricevessi un copione. Era un sequel di un film di ballo che sarebbe uscito solo in DVD, il quale ho letteralmente rifiutato dicendo: “Non faccio film dove si balla o sequel di film dove si balla o film che escano solo in DVD”.

Ne ho parlato con mia mamma e mi ha chiesto: “Da quando sei diventato uno snob?” Mi ha detto: “Non hai mai fatto niente. Hai incontrato Steven Spielberg, e quindi? Non sarai mai uno narratore finché non racconterai delle storie e, se lo sei davvero, puoi raccontare una storia in qualsiasi modo”. Ci ho ripensato e ho detto: “Hai ragione. Farò il miglior dannato sequel di un film di ballo in DVD”.

Ed è ciò che mi ha catapultato in “Step Up 2 - La strada per il successo” e nel mondo degli studios per anni, e fu meraviglioso finché un film non andò come mi aspettavo e forse fu uno dei weekend peggiori degli studios. Mi ha fatto rimettere in discussione tutto ciò che stavo facendo, perché mi ha fatto davvero male. In qualche modo dovevo trovare una risposta alla domanda: “Perché faccio questo lavoro?”

Avevo passato anni ad imparare come fare un film, ma quasi nessuno di questi anni a capire chi fossi come artista o cosa volessi raccontare come essere umano. Mi sentivo solo fortunato di essere.

Così, mi sono messo alla ricerca del mio soggetto. E ho pensato: “Qual è la cosa peggiore da affrontare?” E la risposta era sempre: la mia crisi d’identità culturale.

A nessuno piace sentirsi diverso a scuola, figuriamoci quando il tuo armadietto ha l’odore del tuo pranzo e gli altri ti bullizzano per questo, o quando i tuoi genitori fanno degli errori di grammatica quando parlano in inglese, e li impari anche tu perché ti parlano in quel modo. Così, quando li fai in classe, ti prendono in giro. A nessuno piace essere quello estraneo. E sento ancora dentro quelle sensazioni, l’ho realizzato dopo i 30 anni.

Ho visto questo tweet di un certo William Yu con l’hashtag #StarringJohnCho. Era un tweet normalissimo. Faceva dei poster di John Cho raffigurandolo come protagonista in vari film, come 007 o Ironman. Ciò che voleva dire era: perché non succede nella realtà? È una star del cinema. È famoso, ma non è in nessuno di questi film. E questa cosa mi ha mandato il cervello in pappa. È come quando vedi qualcosa che non puoi più far finta di non aver visto, e quindi il tuo cervello cambia per questo motivo.

E ho realizzato: “Oh, sono parte del problema perché ero lì quando certa gente diceva che non poteva assumere questo o quell’altro perché non venderebbe all’estero o non è un buon investimento”. Dato che conoscevo quel giro, potevo pensare da me e rendermi conto che in realtà non era vero e che, per renderlo qualcosa di basato sulla realtà dei fatti, dovevamo dimostrarlo, e l’unico modo per farlo era fare un film.

Così ho cercato di rispondere alla domanda “Che film potrebbe raccontare la mia storia ma non essere la mia storia?” E ho trovato un libro, “Asiatici ricchi da pazzi”, che mi è stato consigliato da molte persone: mia mamma, i miei cugini, i miei amici. L’ho letto, e l’ho adorato.

Abbiamo incontrato Kevin Kwan, lo scrittore, e abbiamo parlato un sacco della rappresentazione degli asiatici e come volevamo rappresentare questi personaggi, ad esempio un uomo asiatico attraente a differenza di tutti gli altri maschi asiatici rappresentati dai film di Hollywood all’epoca. E come avremmo potuto farlo entrare in un film, e come avremmo strutturato il marketing per mandare quel messaggio al mondo?

Così siamo andati in tutte le case di produzione con il copione e abbiamo catturato un sacco di interesse, il che fu davvero una sorpresa per noi. Dovevamo scegliere. Un’opzione era una casa di produzione tradizionale, la Warner Bros, che l’avrebbe distribuito in sala. L’altra, una piattaforma streaming. E lo streaming, ovviamente, sarebbe costato un sacco di soldi.

Quella somma, almeno a me, avrebbe cambiato la vita. L’altra opzione era, ok, in sala, ma dovevamo anche fare una campagna di marketing, ed era un rischio maggiore.

Siamo arrivati al punto in cui la piattaforma streaming che ci diceva: “Vi faremo un’ultima offerta” e la Warner Bros. che diceva: “Ci state mettendo troppo tempo. Vi facciamo un’offerta, la nostra offerta finale, e avete 20 minuti per rispondere. Se non lo fate, ritiriamo l’offerta.”

Allora riuniamo tutti gli avvocati e i manager in videoconferenza, in attesa dell’offerta. L’offerta arriva, e quella della piattaforma streaming è migliore di tutte le offerte precedenti, con l’aggiunta di poter lavorare a dei sequel e altre promesse sul marketing. La Warner Bros. fa un’offerta più bassa di quella di quattro giorni prima.

A quel punto, tutti gli avvocati spingevano per prendere l’offerta dello streaming. “Arriverà a più persone, è il futuro. Perché mai dovrebbe essere un rischio? Perché dovreste basare il futuro dell’intrattenimento asioamericano su un unico film? È una commedia romantica. Non cambierà il mondo”.

Ero in una posizione scomoda. Noi volevamo davvero che gli americani asiatici venissero invitati ai grandi eventi. Volevamo che apparissero nel museo del cinema. E, se avessero avuto quest’opportunità, sarebbe cambiato tutto.

Dovevamo fare in modo che una multinazionale gigante spendesse decine di milioni di dollari per dire al mondo che tutto questo era importante, e che i personaggi e gli attori erano stelle del cinema. Dovevamo cogliere l’occasione.

Così abbiamo concluso l’affare. Non dimenticherò mai il momento in cui abbiamo detto che avremmo lavorato con la Warner Bros.

Abbiamo potuto riunire i migliori talenti asioamericani da tutto il mondo e farli entrare in questo film.

Il momento più importante è stato quando il film è effettivamente uscito. È stato allora che ho saputo che avevo preso la decisione giusta, quando il pubblico è venuto in sala. Noi avevamo solamente fatto un film, ma è stata la gente a fare la differenza, portando le proprie nonne e mamme.

Mi ricordo di essere andato al cinema quel weekend, e non c’erano solo persone che ridevano e piangevano, ma, quando sono usciti, erano tutti vestiti bene, e non solo persone asiatiche, ma persone di qualsiasi età e ceto sociale… Uscivano e non se ne andavano dal cinema. Rimanevano nell’atrio a parlare del film.

E questo è il potere del cinema, quando il passaparola inizia a diffondersi e tutti devono andare a vedere quei personaggi e portare i loro amici a conoscerli. Tutto questo ha improvvisamente normalizzato una famiglia asiatica. Non puoi far finta di non averlo visto.

Ho vissuto la stessa esperienza con mio fratello, quando ha guardato il film. È sempre il critico più severo. È quasi 1.90, atletico, e non è mai triste, preoccupato o roba così. È una roccia.

Gli faccio vedere il film, e c’è quel momento in cui Nick Young esce dalla villa con il suo smoking bianco, ed è come vedere Leonardo Di Caprio in “Titanic”, il tizio più figo, prestante e affascinante che esista. Mio fratello inizia a piangere. E io gli faccio: “Cosa c’è?” E lui dice: “Non ho mai visto un uomo asiatico rappresentato in questo modo prima d’ora, e, crescendo, non ho mai pensato che sarebbe successo. Ti senti sempre così brutto o sottostimato. Ti senti così diverso”. E poi fa: “Quando vedo lui, è tipo una vera stella del cinema. Il mondo intero vorrà essere come lui”.

Quando sento storie di persone che hanno provato le stesse cose è… è molto commovente per me. Questo film ha cambiato la mia bussola, che dice dove sono diretto e cosa voglio fare o cosa dovrei fare. E mi sono reso conto che non potrei mai più fare un altro film che significhi così tanto per me.

E voglio che mia figlia e mio figlio sappiano che cos’ho fatto in questo momento. Che cos’hai fatto? Li hai ascoltati? Stavi soltanto facendo un altro film, oppure hai fatto qualcosa che parla di una tematica su cui tutti chiedono aiuto? Voglio essere quella persona che, almeno, ci prova.

Non sono la persona più brillante dell’universo. Non sono neanche il più creativo, ma sono qui, e posso farmi il c**o per fare in modo che la prossima generazione noti delle cose che gli altri prima non vedevano.

[RUMORE DI PASSI E DI UCCELLI]

Stiamo arrivando alla nostra destinazione in queste colline dorate e tondeggianti. Mi ricorda un sacco la mia infanzia, quando giocavo con i miei giocattoli. È sicuramente qui che ho imparato a raccontare storie, giocando su questo stesso genere di colline.

La vista da qui è probabilmente la più estesa che avrò mai di Los Angeles, dall’oceano e le isole laggiù come Catalina fino al centro della città, dove gli edifici sembrano piccolissimi visti da qui.

Il riflesso dell’oceano è troppo bello. Sembra un vetro istoriato, adesso. Riesci proprio a sentire il potere dell’oceano in questo momento.

La musica è un toccasana psicologico per me. È come se fosse il software del mio cuore perché, quando la ascolto, mi trasporta in un altro luogo o mi ricorda dei sogni che avevo quando ero un bambino o stavo attraversando un momento difficile. A volte è bello sentire quelle cose, catapultarsi in quei momenti della tua vita su cui adesso hai una prospettiva diversa. In un certo senso, tuffarsi in quelle emozioni mi sembra molto sano.

C’è stato un periodo intorno ai miei 25 anni in cui mi sembrava di aver perso le mie opportunità. Quei cinque anni di cui non voglio parlare. Ma è in quel momento che ho ascoltato un sacco di Nick Drake, e ha parlato al mio cuore a un altro livello. Non erano solo belle canzoni. Erano delle canzoni davvero pesanti, e mi hanno aiutato a superare molto di quegli anni. La canzone che mi ha detto di più in assoluto, la più bella ma anche la più malinconica è “One Of These Things First”.

[MUSICA - “ONE OF THESE THINGS FIRST” DI NICK DRAKE]

Durante la preparazione del mio primo vero film, “Step Up 2 - La strada per il successo”, ero nervoso e spaventato. E uso spesso la musica come ispirazione mentre sto facendo brainstorming o una storyboard. Ascoltavo spesso anche “I Can” di Nas dalla mia playlist. E mi ha ispirato davvero mentre conoscevo tutti quei ballerini di strada perché loro… lavoravano duro. Provenivano da ogni tipo di percorso di vita. Vivevano alla giornata, ma scoprivano la propria vena artistica ogni giorno, e questo creava un bel po’ di speranza in quella comunità. “I Can” era come un inno. Perfino oggi, ascoltarlo mi fa venire voglia di lavorare più duramente, e ora che ho figli ha ancora più significato per me.

[MUSICA - “I CAN” DI NAS]

Quando ho iniziato a girare “Crazy & Rich”, ho passato un sacco di tempo in Malesia e sono riuscito ad assorbire la musica, le persone e il cibo del posto, che mi hanno fatto scoprire davvero un mondo nuovo. Una delle persone i lì che adoravo era Yuna, un’artista incredibile. La sua musica viene dall’anima. Ha fatto una canzone con Usher che si intitola “Crush”. Mi dà la stessa sensazione di passeggiare con un tè caldo in mano. È rilassante, è sensuale. È come quando ti innamori e ti si rizzano i peli delle braccia e non t’importa nient’altro che la persona a fianco a te perché, alla fine, il segreto della vita, secondo me, è stare con qualcuno per cui ti riprendi una cotta continuamente.

[MUSICA - “CRUSH” DI YUNA FT. USHER]

Stiamo giungendo alla fine di questa camminata, e non mi sento stanco. Credo che ci siano stati alcuni momenti stancanti, ma quando ti inizia a pulsare il sangue, ti risvegli. Adesso voglio andare… voglio andare a scrivere qualcosa o a fare qualcosa. Amo questa sensazione. È sempre a metà del cammino che fai più fatica. Ma la discesa ti dà sempre una sensazione fantastica, sapere che sei arrivato fin lì.

Grazie per aver dedicato tempo a camminare con me oggi.