Passeggiamo - Passeggiamo con Dolly Parton

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Dolly Parton: Credo che a tutti piaccia camminare. Si riflette bene quando si cammina. Io scrivo molte canzoni quando cammino, penso a molte storie. E voglio condividerle con voi.

[INTRO MUSICALE]

Sam Sanchez: Benvenuti a Passeggiamo, dove alcune delle persone più interessanti e stimolanti al mondo condividono storie, foto e canzoni che hanno influenzato la loro vita. Dolly Parton è molto più di una superstar della musica country. È un’attrice, un’imprenditrice e una filantropa. Durante questa passeggiata, Dolly ci rivela che nonostante i numerosi riconoscimenti ricevuti, ciò a cui tiene di più proviene dalle sue umili origini nelle campagne del Tennessee.

[SUONI DELLA NATURA]

Dolly Parton: Sono una ragazza di campagna. Quindi, da giovane, facevo la maggior parte delle mie camminate sulle Smoky Mountains, nel Tennessee orientale.

Ora posso ancora farlo, perché ho la fortuna di vivere in una fattoria.

Ho ancora una casa nei pressi di Nashville, a Brentwood nel Tennessee, così esco e cammino, arrivo fino al fienile e passeggio intorno a casa.

Ma so che in questo periodo, con il Covid e tutto il resto, molti di voi non possono uscire e passeggiare come di consuetudine. E sono sicura che molti si sentono prigionieri.

So quanto sia importate avere la possibilità di muoversi e camminare. Così, anche se per ora non possiamo uscire e passeggiare nei posti in cui vorremmo andare, posso comunque portarvi a fare un giro lungo il viale dei ricordi. Spero che camminando assieme ci sentiremo un po’ più liberi.

Quando mamma e papà si sposarono, lei aveva quindici anni e lui diciassette. Mio nonno era un pastore e li sposò lui. Ma mio papà era molto povero, così si sposarono in casa. Papà non riuscì mai a comprare una fede nuziale per mia mamma. Trascorsero la luna di miele nel fienile di mio nonno.

Poco dopo, riuscirono ad acquistare una casetta. E lì iniziarono a crescere i loro figli. A trentacinque e trentasette anni, avevano già messo al mondo dodici figli, sei femmine e sei maschi. In ordine: Willadeene, David, Denver, Dolly, Bobby, Stella, Cassie, Randy, Larry, Floyd, Freida e Rachel. Quella era la nostra famigliola.

Siamo cresciuti sulle Smoky Mountains, nel Tennessee orientale, e non avevamo soldi.

Così un anno mio papà disse: “Questo Natale faremo così. Quest’anno, invece di prenderci dei regali con i pochi soldi che abbiamo, li mettiamo tutti assieme e compriamo una fede nuziale per la mamma”.

Oh, quell’idea ci piacque moltissimo. Cercammo tutti di capire cosa potevamo fare per racimolare dei soldi. Così, per guadagnare qualcosa, iniziammo a vendere delle marmellate e gelatine che, perlopiù, rubavamo dalla cantina dove mamma le custodiva. Facemmo tutto il possibile per contribuire.

Quello fu anche il primo anno in cui addobbammo l’albero di Natale con vere luci elettriche. Prima facevamo sempre noi le decorazioni. Ma quell’anno avevamo la corrente. E così papà prese delle lampadine per l’albero, quelle che fluttuano su e giù, come delle bolle. Ora sono addobbi un po’ d’altri tempi, certo, ma anche io sono un po’ datata. Comunque, papà disse: “Compriamo l’anello per mamma, poi io lo nascondo e chi lo trova vince il gran premio”.

Cercammo l’anello ovunque, in tutta casa: sotto i tappeti, sui davanzali, sotto questo, sotto quello, nella stufa. In tutti i posti in cui papà avrebbe potuto nasconderlo.

Papà lo aveva messo tra le luci dell’albero. Lo aveva infilato in un portalampada e poi aveva riavvitato la lampadina.

Io e mio fratello Denver vedemmo l’anello nello stesso momento ed entrambi volevamo aggiudicarcelo. Ribaltammo l’albero di Natale e rovesciammo anche altre cose. Forse facemmo cadere anche il tubo della stufa, perché avevamo il naso, gli occhi e tutto il resto sporchi di nero.

Litigammo su chi l’avesse trovato per primo e alla fine lo sollevammo in aria insieme. Quella volta vincemmo a pari merito. Fu un pareggio, per così dire.

Mamma era felicissima. Era soddisfatta e noi eravamo strafelici. Si mise a piangere e pure noi. Finalmente aveva la sua fede.

Papà disse: “Beh, avevo detto che chi avesse trovato l’anello avrebbe ricevuto l’unico regalo di quest’anno”. Lui era fatto così, e chi aveva trovato l’anello poté ovviamente aprire la grande scatola di caramelle che papà aveva preso, ma la dovette poi anche condividere con tutti gli altri.

Ho sempre pensato che fosse bello che mia mamma avesse una casa zeppa di bambini e che abbia ricevuto il suo anello dopo aver avuto così tanti figli. Adoro questa storia. La custodisco come un tesoro prezioso.

Il tema è proprio la famiglia. Le famiglie che affrontano la vita assieme. E penso che, in quest’ultimo anno in particolare, le famiglie siano state costrette a restare unite in modi completamente inattesi, cosa che in un certo senso trovo meravigliosa. Sono sicura che per molti versi sia difficile, ma da tutta questa storia ho appreso che è necessario collaborare e condividere con gli altri non tanto per il nostro bene, ma soprattutto per quello delle persone che amiamo. Davvero: è proprio meglio dare che ricevere.

Mio papà non sapeva né leggere né scrivere. Era un ragazzo di campagna cresciuto sulle montagne della Contea di Sevier e anche lui veniva da una famiglia molto numerosa. A quel tempo, i ragazzini dovevano andare a lavorare nei campi per dare una mano a sfamare la famiglia. Quella era la realtà. Così papà ha sempre provato un po’ di vergogna e imbarazzo per il fatto di non sapere né leggere né scrivere.

E questa cosa mi ha sempre rattristato, perché lui era una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto in vita mia.

Gli dicevo: “Papà, al mondo ci sono tante persone che non sanno leggere, né scrivere. Non hanno avuto l’opportunità di imparare a farlo. Non devi vergognartene”. E un giorno gli dissi anche: “Perché non avviamo un progetto affinché i bambini imparino a leggere negli anni in cui sono più recettivi?” Così demmo vita alla Imagination Library della Contea di Sevier, dove abitavamo. E pensai: “Beh, forse sarà un’esperienza positiva per questa zona e, se siamo fortunati, lo sarà anche per altre contee”. Mi feci aiutare da mio papà. Volevo che si sentisse orgoglioso di quel progetto.

Andò così bene che la voce arrivò alle orecchie del governatore dell’epoca che disse: “Questa è una gran bella iniziativa. Perché non la estendiamo a tutto il Tennessee?” E in men che non si dica, ci ritrovammo in varie parti del mondo. Da quando abbiamo iniziato, abbiamo consegnato qualcosa come 150 milioni di libri a bambini.

Papà è vissuto abbastanza per vedere gli ottimi risultati della Imagination Library. Rimase piacevolmente colpito sentendo che i bambini mi chiamavano la “Signora dei Libri”. Lo trovava più rimarchevole del fatto che fossi una star della musica country. Sentiva davvero l’importanza di fare del bene grazie a quel progetto.

Penso di aver ereditato la mia etica del lavoro da mio padre. Papà lavorava sodo e gli piaceva molto darsi da fare. Per lui non era mai troppo quando si trattava di lavorare per la sua famiglia.

Papà era solito recarsi al Palazzo di Giustizia dove avevano eretto una mia statua. Lui faceva sempre un sacco di battute su quella statua, ci scherzava sopra. Ricordo che io ne andavo molto orgogliosa, anche se non in modo arrogante, perché pensavo: “Una mia statua nel cortile del Palazzo di Giustizia? Di solito erigono statue a presidenti o a persone che ha fatto grandi cose”.

Quando andai a casa e gli dissi: “Papà, sai che erigeranno una mia statua? Hai sentito della statua al Palazzo di Giustizia?”

Lui rispose: “Beh, sì, ho sentito. Certo, per i tuoi fan sarai anche una specie di idolo, ma per i piccioni diventerai solo un altro bel gabinetto all’aperto”.

Così, dopo il lavoro, papà caricava sul retro del pick-up un secchio di acqua saponata e una scopa e andava là per togliere dalla mia statua tutte le cacche di piccione. Ovviamente questa cosa mi commuoveva profondamente. Volevo un mondo di bene a mio papà e volevo che lui fosse fiero di se stesso, come io lo ero di lui.

C’è un passo nella Bibbia che recita: “Onora tuo padre e tua madre”. Molti pensano che questo significhi “obbedire” e forse è così, in una certa misura. Ma io ho sempre pensato che significasse onorare il loro nome, fare qualcosa per onorarli, per dimostrare l’importanza che hanno avuto per te. Volevo onorare mio padre in quel modo e sono fiera di averne avuto la possibilità.

[DOLLY PARTON CANTA UN VERSO DA “9 TO 5”]

Senti questo suono? Beh, sono le mie unghie finte. È così che ho scritto “9 to 5”. Sta’ a sentire questa storia.

Lavoravo nella musica country da svariati anni e più volte mi avevano chiesto di fare dei film, ma io non volevo. Non avevo mai visto girare un film e non mi interessava molto quel settore. In quel periodo ero più presa dalla musica e pensavo che tutto sarebbe successo al momento giusto, come sempre era capitato nella mia vita, se fossi stata destinata a farlo.

Jane Fonda ebbe l’idea di fare un film sulle donne nel mondo di lavoro, sulla parità di salario, così venne da me e mi disse: “Beh, penso che Dolly ci porterà il Sud”. Con questo intendeva dire che avevano bisogno di una ragazza di campagna. Lily Tomlin era già stata scritturata. Quindi ne fui molto orgogliosa. Mi dissi: “Beh, forse oltre a portare il Sud, me la caverò anche bene come attrice”, perché sentivo che era una cosa alla mia portata.

Anche il momento sembrava quello giusto perché Jane Fonda era molto famosa in quel periodo, così come Lily Tomlin. Pensai: “Beh, queste sono due grandi star. Se il film va bene, mi prenderò parte del merito. E se va male, potrò dare la colpa a loro. Tanto nel settore cinematografico non mi conosce nessuno”.

Ad ogni modo, fu divertentissimo fare il film. Ogni giorno non vedevo l’ora di andare a lavorare. In quel periodo, Jane Fonda seguiva un programma d’allenamento e arrivava al lavoro in tuta, con i capelli raccolti in uno chignon e tutta sudata. Poi andava nel suo camerino a sistemarsi. E Lily, ovviamente, non era per niente una mattiniera. Quindi si presentava con i bigodini e il Clearasil in faccia, senza trucco, senza niente.

Io, ovviamente, ero sempre molto emozionata di andare al lavoro e non uscivo mai di casa senza trucco e senza essermi agghindata per bene, anche se andavo dritta allo studio, dove dovevo togliermi tutto per prepararmi alle riprese. Arrivavo sempre galvanizzata e impaziente di cominciare, e ricordo che un giorno Lily mi disse: “Vuoi darti un po’ una calmata? Non sono ancora sveglia”. Io le risposi: “Ehi, non è colpa mia se siete delle scansafatiche. Siete voi due che dovete darvi una regolata”. Avevamo un ottimo rapporto e ricordiamo con molto piacere ogni singolo minuto trascorso assieme sul set.

Quel progetto è stato speciale sotto ogni aspetto, e sono convintissima che abbia aiutato molto le donne. Certo, c’è ancora molta strada da fare. Ancora adesso non abbiamo tutto quello che ci meritiamo. Ancora adesso non c’è parità di salario a parità di mansione, ma il film ha dato il via a un movimento in cui le donne sono più riconosciute e apprezzate.

Quando Jane venne a chiedermi di fare il film, le dissi: “Sì, credo di poterlo fare, ammesso che abbia la possibilità di comporre la colonna sonora”. Così quello fu il nostro patto. Ed è quello che feci.

[DOLLY PARTON PICCHIETTA LE UNGHIE]

Questo suono mi ricordava una macchia da scrivere e l’ho usato perché il film parlava di donne sul posto di lavoro. Mentre stavo sul set e osservavo le varie scene, ogni giorno mi venivano in mente dei versi. Alla sera tornavo nella mia camera d’albergo, mi mettevo a comporre alla chitarra e registravo il tutto. Così alla fine, dopo qualche mese, la canzone era finita. E poi, ovviamente, feci venire allo studio di registrazione tutte le ragazze del set per incidere le parti di sottofondo, mentre io suonavo con le mie unghie. Persino sull’album c’è scritto “Unghie di Dolly”. In ogni caso, ancora adesso tutti mi chiedono sempre di fare questo suono. Ovviamente devi avere le unghie finte, altrimenti non ci riesci. Devono essere finte.

[MUSICA - “9 TO 5” DI DOLLY PARTON]

Dico sempre che le mie canzoni sono come miei figli e spero che mi sorreggeranno quando diventerò anziana. Spesso mi viene chiesto se ho una canzone preferita. Lo sono tutte. Le amo tutte perché sono mie. Ma “Coat of Many Colors” è la mia favorita.

Parla di mamma. Parla di una certa filosofia di vita. Di una certa mentalità. Di famiglia. Di accettazione. Parla di moltissime cose.

Mia mamma era la persona più speciale del mondo. Una di quelle persone che potevano dirti qualsiasi cosa e farla sembrare bella, cuocere qualsiasi cosa e farla buona, cucire qualsiasi cosa e renderla carina.

Mi serviva un cappotto per l’autunno, ma non avevamo abbastanza tessuto dello stesso colore. Così mamma mise insieme più pezzi e mi raccontò la storia di Giuseppe e della veste dai molti colori che si trova nel Vecchio Testamento. Io mi sentivo come Giuseppe, ma i miei compagni di scuola non la pensavano così e ridevano di me, facendomi piangere.

Mi prendevano in giro dicendo che ero vestita di stracci e che eravamo poveri. E mamma mi rassicurò: “Non siamo poveri. Siamo ricchi di ciò che conta. Siamo ricchi di amore, comprensione e gentilezza”. Era fatta così.

[VOLUME DELLA MUSICA AUMETA]

Per questo questa canzone è così importante per me.

[MUSICA - “COAT OF MANY COLORS” DI DOLLY PARTON]

“Circle of Love” parla della fede nuziale che abbiamo preso per mia mamma dopo che aveva avuto così tanti figli.

[MUSICA]

Ed è davvero una piccola storia, dolce e speciale, che parla di una mammina dolce e speciale.

[MUSICA- “CIRCLE OF LOVE” DI DOLLY PARTON]

Beh, spero che abbiate fatto una bella passeggiata e che mi abbiate ascoltato fino alla fine. Spero anche che abbiate tratto ispirazione dalle mie canzoni, perché il loro scopo era proprio questo anche se alcune mi hanno fatto venire le lacrime agli occhi e non era affatto mia intenzione far piangere voi.

Io stessa mi sento ispirata per il solo fatto di parlarne e di spiegare cosa significano per me. E poterle condividere con voi è molto importante per me. Quindi vi ringrazio.